In occasione dei trent’anni anni dalla sua fondazione, Viafarini lancia The Living Archive, a cura di Francesca De Zotti, un progetto di valorizzazione del patrimonio archivistico di Viafarini custodito dal 2008 alla Fabbrica del Vapore di Milano.
Partendo da ricerche condotte all’interno dell’archivio portfolio, riconosciuto di interesse storico dal Ministero della Cultura, sono stati selezionati documenti, materiali e fotografie a testimonianza di questi trent’anni di attività dell’Archivio, per mappare momenti e protagonisti che hanno scandito una storia tuttora in divenire.
Liliana Moro
“Moro in quegli anni usava la gommapiuma (Unleaded, e Paradiso Artificiale), il vetro soffiato (La spada nella roccia), la carta (Abbassamento, ma anche Sotto inchiesta e Le città) e una serie di oggetti presi in prestito dalla vita domestica come un frigorifero (in No Frost), le palette raccoglisporco (Che idea!), le trappole per topi (Tutti a tavola), una austera culla in legno (Torno subito), dei termometri (Svegliatevi). Lavorava anche sulla campionatura di suoni e sull’impiego di piccole fonti luminose all’interno delle sue mirici. Uno degli ultimi lavori consiste, ad esempio, nella studiata sequenza di varie versioni della canzone popolare Bella ciao, trasmessa da un tromba acustica inchiodata al muro. L’altoparlante, il bisogno della società di parlare ad alta voce, di proclamare è un altro motivo ricorrente di Moro, che in un intervento ha preferito presentare la cacofonia di Un mondo senza teste piuttosto che l’idea di una folla armonizzata”.
Milovan Farronato in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Nico Vascellari
“Il lavoro di Nico Vascellari si snoda lungo un percorso trasversale che interseca forme espressive differenti come la musica, il video, la fotografia, la performance, la moda, il design e l’attività curatoriale dentro una ricerca che sta in bilico tra una forte drammaticità e la naturalezza di una pianta che cresce.
Si tratta di un artista che proviene dal mondo underground come voce di un gruppo punk e che ha sempre fatto della sperimentazione musicale e performativa il nucleo della sua operatività. Ogni suo lavoro – performance o installazione – prevede uno spazio di esibizione, un pubblico e un ampio margine di improvvisazione e imprevedibilità. Il suo vocabolario è fatto di materie: legno, tessuto, cera, specchi, glitter, colori fluorescenti, musica e del suo corpo che le agisce, le vive e le indossa ogni volta dentro un’azione performativa esuberante, sensuale e carica di suggestioni simboliche tali da trasformarsi in un rituale.
Il suono, componente imprescindibile nella sua creatività, lo accompagna durante le fasi di ricerca e creazione di tutti i suoi lavori e sembra arrivare da una regione lontana, ancora non sintetizzato dall’orecchio comune, profondo e denso; al suo interno si possono intendere altri suoni residui, frammenti di memorie, di luoghi e di atmosfere, rumori, voci, brusii. Nelle sue ultime performance, il suono è sempre più utilizzato in accordo con la componente luminosa. Anche le luci, rischiarando le scene delle sue azioni o di quello che resta, devono reagire con il buio che ne costituisce lo sfondo costante. Una sorta di tensione e di equilibrio che sembra collegare ciò che illumina con quello che proviene dal sottosuolo”.
Chiara Bertola in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story" (2010)
Enzo Umbaca
“In occasione della sua mostra personale in Viafarini, Enzo Umbaca ha esposto Vetri da lavare del 1994, lavoro composto da più di cento lastre di vetro annerite con il fumo, disegnate per la maggior parte da lavavetri extracomunitari agli angoli delle strade e al mercato che allora si svolgeva nella zona Barona, e da un video che documenta alcuni passaggi della fase di produzione. Le lastre mettono al mondo un mondo dove si alternano segni incerti e segni chiarissimi, moschee e automobili, tracce della cultura d’origine e del paesaggio presente; il video documenta slanci e imbarazzi, curiosità e diffidenza per una pratica spesso mai praticata, momenti speciali di azioni congiunte al mercato dove italiani e stranieri disegnano fianco a fianco su lastre appoggiate su un banco inconsueto. Il giorno dell’inaugurazione della mostra l’artista ha invitato a prendere parte a un incontro pubblico persone di diversa esperienza, provenienza e formazione, a ognuna delle quali è stato chiesto un contributo differentemente collegato con il lavoro in mostra”.
Emanuela De Cecco in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Eva Marisaldi
“Eva Marisaldi introdusse alcuni elementi che segneranno la scena artistica italiana degli anni ‘90. Se del termine relazione si è abusato, non si può non registrare che dalla prima metà del decennio si affacciò anche sulla scena del nostro paese una processualità artistica che fece del dialogo il proprio paradigma. Dialogo e collaborazione che di per sé non sono altro che mezzi e che potrebbero anche non avere particolare rilevanza se non presupponessero un’idea di autore e di opera tornata a creare dimensioni per- corribili da soggettività differenti, permeate da modalità narrative e tonalità affettive. Opera esemplare considerata retrospettivamente e tra le prime dell’artista, Scatola di montaggio indica il dono di sé come inclinazione emotivamente tesa a dare vita a un luogo d’incontro tra soggettività variabili e mutevole, a seconda delle esperienze che in esso s’intrecciano. Non irrigidendo i ruoli la voce dell’artista diviene nell’opera una tra le tante, accompagnando il pubblico a colmare il luogo che lei accenna ma non occupa”.
Alessandra Pioselli in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story" (2010)
Roberto Cuoghi
"A dirla tutta, quando ho iniziato a sapere dell’esistenza strana di Cuoghi, avevo qualche dubbio su quei primi lavori, troppo debitori di una gloriosa storia dell’arte per sembrarmi del tutto originali, anche se era chiaro che le sue azioni non avevano il tono eroico e politico di quelle dei suoi predecessori e trovavano forme diverse, appunto, di racconto. A distanza di più di dieci anni credo ancora nella mia opinione. Ma ora è chiaro che, già in quei primi lavori, c’era molto di ciò che avrebbe mosso le sue visioni successive: l’ossessione per il corpo, suo e di altri, l’attenzione per le possibilità della metamorfosi e della trasformazione in un mondo d’identità, forme e informazioni sempre più malleabili e fluide, il suo interesse per le forme pop e popolari del racconto, della fiaba, della leggenda. In questi anni, attraverso un lavoro di scavo e di sintesi allo stesso tempo, Cuoghi sembra aver trovato la formula magica per combinare memorie di eroiche avanguardie artistiche con il tipico disincanto postmoderno, la cultura popolare italiana con le esigenze e i nodi, anche drammatici, di un’attualità pressante. È diventato attuale e antico al tempo stesso, più profondamente vecchiogiovane.
Se Roberto è, probabilmente, l’artista italiano più importante della sua generazione, è bello sapere che tutto (o quasi) è nato da dieci unghie decisamente troppo lunghe".
Luca Cerizza in "Souvenir d'Italie. A nonprofit art story" (2010)
Francesco Vezzoli
“La malinconia però è un modo di essere nel mondo, talmente diffuso da costituire una parte rilevante anche nello spettacolo, che Vezzoli intendeva, dall’inizio, indagare. Il divismo generato dal cinema, con tutte la dinamiche di identificazione che scatena, è in fondo il contraltare nobile, la controparte esaltante, e creativa per quanto tende alla emulazione, del demi-monde di cui sopra.
Insomma, poco dopo è arrivata Silvana Mangano: è sua l’effige che l’artista ricama in uno dei tre video dei suoi esordi, perché sembra che l’attrice sia stata a detta di tutti una donna malinconica, poco attratta dal glamour che avrebbe dovuto sostanziare la sua esistenza... E una grande ricamatrice”.
Giorgio Verzotti in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Alessandra Spranzi
“Il mondo non è tutto finanza e informazione globalizzate. Tutto intorno a noi è pieno di giornalini, dépliant, siti web in cui milioni di persone mettono in vendita oggetti, case, animali di cui, diciamo così, non si possono più occupare. Quello a cui solitamente non facciamo caso è che per farlo li fotografano e il modo in cui lo fanno. Tutto sembra normale e pura registrazione, ma è tutto un mondo fotografico – e un’estetica – a essere in atto. Ci voleva lo sguardo surreale di Alessandra Spranzi per farcelo notare.
Come fotografare un oggetto, una casa, un animale, per mostrarlo a qualcuno, mostrarne le caratteristiche, dare un’idea a un possibile acquirente? Come metterlo e dove? La prassi è minimale, utilitaristica, grado zero, quando non sotto zero, se si pensa alle inquadrature storte, ai flash, agli errori tecnici di ogni tipo; comunque nessuna preoccupazione estetica, nessun artificio tecnico, basta che la luce sia sufficiente e che l’oggetto si veda tutto, al centro dell’inquadratura. Eppure i risultati sono vari e sorprendenti. Guardati con altro occhio si caricano – o scaricano – di altri contenuti e forme, quelli che vi proiettiamo o estraiamo noi; ma non senza conservare qualcosa di irriducibile, di singolare, di proprio, che ha attinenza con quel fondo inestetico da cui originano”.
Elio Grazioli in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Cesare Pietroiusti
Da tempo Cesare Pietroiusti ha intrapreso una riflessione sul tema del valore: valore economico, valore artistico, valore funzionale dei pensieri, degli atti e degli oggetti. All’interno di questa sua riflessione rientra una serie di indagini critiche e di esperimenti riguardanti in modo specifico il denaro e il valore dell’arte.
«Mi interessa il tentativo di creare situazioni nelle quali un qualche tipo di paradosso o di inversione di termini costringa il visitatore-partecipante, di una mostra o di una performance, a vedere in modo diverso qualcosa, il denaro, che è considerato ordinario o scontato. Le leggi economiche, in questo senso, offrono un potenziale campo di ricerca molto interessante. La feticizzazione del denaro, l’esistenza di tabù riferiti a esso, la compresenza in questa entità di caratteri divini uniti a una sua estrema, triviale, ordinarietà, apre un campo di sperimentazione e di indagine critica ampio e... ricco».
Gabi Scardi in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010).
Stefano Arienti
“Vi è un’ampia società fatta di persone che a loro modo praticano un culto delle immagini, di un insieme di informazioni visive che stanno solitamente in una forma quadrangolare, su supporti bidimensionali che si è portati a fissare su pareti e che diventano oggetto di contemplazione. È una predisposizione forse innata, che si rintraccia in tante culture e in vari periodi, che naturalmente nella diffusione massiccia della stampa ha trovato un grande sviluppo.
Mi ha sempre colpito questo approccio popolare, non colto, all’amore per l’immagine, la diffusa propensione a fissare in una parete qualcosa su cui tornare con l’attenzione, con cui convivere, si tratti di un manifesto, di una locandina o di un’immagine ritagliata. Questo accade in casa, nell’ufficio, in aule, in spazi dove si vive. Penso ad ambienti vari, visivamente articolati, elaborati, che vanno dalla stanza del teenager al gabbiotto di una portineria, dalla sede di un club alla cabina di un camionista. Casi del genere denotano l’esigenza di costruire uno spazio d’appartenenza con proprie peculiari forme, in modo che possa risultare funzionale, appagante, rassicurante. Naturalmente, se andiamo ad approfondire, ci si rende conto che non sempre, ma spesso, gli elementi che compongono questi spazi offrono un senso di appartenenza più presunto che reale, offrono soluzioni limitate e temporanee a una omogeneizzazione cui si reagisce adottando ancora una vol ta forme preconfezionate, finendo con l’aderire a ulteriori stereotipi. Ma, senza andare troppo lontano con questo tipo di considerazioni, ciò che mi interessa sottolineare è che Stefano Arienti, quando interviene su poster, agisce in quella costante antropologica che conduce a mettere in verticale un’immagine che piace”.
Giulio Ciavoliello in “Souvenir d’Italie. A non profit art story" (2010)
Massimo Bartolini
“È in questa linea del disegno inteso come esercizio di concentrazione, come metodo di sintesi e di visione, le perle distillano la pianta dello spazio, che lavora Bartolini. Il disegno è la struttura attraverso cui l’artista osserva il mondo. Per Bartolini frammenti di paesaggi reali e tridimensionali diventano disegni, come quando per un’opera pubblica a Firenze, Panchina del 2003, scontorna un pezzo di terreno per farne un oggetto funzionale. Mentre, con un processo simile ma che procede inversamente, attribuisce tridimensionalità e concretezza ai disegni bidimensionali, come quando realizza disegni di giardini su fogli di carta accartocciata che poi stende di nuovo in modo da utilizzare l’avvallamento delle piegature come fossero zolle di terra”.
Cloe Piccoli in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Maurizio Cattelan
“Una polaroid, la definiva Maurizio Cattelan all’epoca. Certo, come spesso nelle opere di Cattelan c’era la sparizione, c’era la scomparsa, ma c’era anche la morte, e questa volta era drammaticamente vera. E c’è L’uomo della panchina, così come lo chiamava Francesco Bonami nel crudo testo pubblicato in L’hiver de l’amour bis, il catalogo-supplemento della mostra, dove, nel bel mezzo delle scintille cross-disciplinari e degli umori non ancora disincantati dei primi anni ’90, trovava spazio il canto funebre per Moussafir Driss, malcapitato dormitore notturno disgraziatamente assopitosi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ninna Nanna non segnava davvero lo spazio - come tradizionalmente fa la scultura – ma lo incideva e dinamitava psicologicamente. Segnava più che altro l’atmosfera e, al tempo stesso, segnava senz’altro un momento. Quel momento era l’inizio di qualcosa e quei sacchi pieni di macerie potevano certamente rappresentarlo. Ben più che per l’arte ovviamente. Ma non è stato così. Le cose hanno finto di andare avanti ma sono state ricostruite identiche a se stesse, come lo è stato il PAC dopo l’esplosione. Per rimozione forse, ma anche per comodità e tranquillità sociale, in splendente e paradossale assonanza con un’identità politica atrofizzata.
Ninna nanna, nel suo peso simbolico e nella sua epica tragicità quotidiana, chiude davvero il secolo italiano degli stati d’animo e della loro incommensurabile tristezza”.
Andrea Lissoni in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
In occasione dei trent’anni anni dalla sua fondazione, Viafarini lancia The Living Archive, a cura di Francesca De Zotti, un progetto di valorizzazione del patrimonio archivistico di Viafarini custodito dal 2008 alla Fabbrica del Vapore di Milano.
Partendo da ricerche condotte all’interno dell’archivio portfolio, riconosciuto di interesse storico dal Ministero della Cultura, sono stati selezionati documenti, materiali e fotografie a testimonianza di questi trent’anni di attività dell’Archivio, per mappare momenti e protagonisti che hanno scandito una storia tuttora in divenire.
Liliana Moro
“Moro in quegli anni usava la gommapiuma (Unleaded, e Paradiso Artificiale), il vetro soffiato (La spada nella roccia), la carta (Abbassamento, ma anche Sotto inchiesta e Le città) e una serie di oggetti presi in prestito dalla vita domestica come un frigorifero (in No Frost), le palette raccoglisporco (Che idea!), le trappole per topi (Tutti a tavola), una austera culla in legno (Torno subito), dei termometri (Svegliatevi). Lavorava anche sulla campionatura di suoni e sull’impiego di piccole fonti luminose all’interno delle sue mirici. Uno degli ultimi lavori consiste, ad esempio, nella studiata sequenza di varie versioni della canzone popolare Bella ciao, trasmessa da un tromba acustica inchiodata al muro. L’altoparlante, il bisogno della società di parlare ad alta voce, di proclamare è un altro motivo ricorrente di Moro, che in un intervento ha preferito presentare la cacofonia di Un mondo senza teste piuttosto che l’idea di una folla armonizzata”.
Milovan Farronato in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Nico Vascellari
“Il lavoro di Nico Vascellari si snoda lungo un percorso trasversale che interseca forme espressive differenti come la musica, il video, la fotografia, la performance, la moda, il design e l’attività curatoriale dentro una ricerca che sta in bilico tra una forte drammaticità e la naturalezza di una pianta che cresce.
Si tratta di un artista che proviene dal mondo underground come voce di un gruppo punk e che ha sempre fatto della sperimentazione musicale e performativa il nucleo della sua operatività. Ogni suo lavoro – performance o installazione – prevede uno spazio di esibizione, un pubblico e un ampio margine di improvvisazione e imprevedibilità. Il suo vocabolario è fatto di materie: legno, tessuto, cera, specchi, glitter, colori fluorescenti, musica e del suo corpo che le agisce, le vive e le indossa ogni volta dentro un’azione performativa esuberante, sensuale e carica di suggestioni simboliche tali da trasformarsi in un rituale.
Il suono, componente imprescindibile nella sua creatività, lo accompagna durante le fasi di ricerca e creazione di tutti i suoi lavori e sembra arrivare da una regione lontana, ancora non sintetizzato dall’orecchio comune, profondo e denso; al suo interno si possono intendere altri suoni residui, frammenti di memorie, di luoghi e di atmosfere, rumori, voci, brusii. Nelle sue ultime performance, il suono è sempre più utilizzato in accordo con la componente luminosa. Anche le luci, rischiarando le scene delle sue azioni o di quello che resta, devono reagire con il buio che ne costituisce lo sfondo costante. Una sorta di tensione e di equilibrio che sembra collegare ciò che illumina con quello che proviene dal sottosuolo”.
Chiara Bertola in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story" (2010)
Enzo Umbaca
“In occasione della sua mostra personale in Viafarini, Enzo Umbaca ha esposto Vetri da lavare del 1994, lavoro composto da più di cento lastre di vetro annerite con il fumo, disegnate per la maggior parte da lavavetri extracomunitari agli angoli delle strade e al mercato che allora si svolgeva nella zona Barona, e da un video che documenta alcuni passaggi della fase di produzione. Le lastre mettono al mondo un mondo dove si alternano segni incerti e segni chiarissimi, moschee e automobili, tracce della cultura d’origine e del paesaggio presente; il video documenta slanci e imbarazzi, curiosità e diffidenza per una pratica spesso mai praticata, momenti speciali di azioni congiunte al mercato dove italiani e stranieri disegnano fianco a fianco su lastre appoggiate su un banco inconsueto. Il giorno dell’inaugurazione della mostra l’artista ha invitato a prendere parte a un incontro pubblico persone di diversa esperienza, provenienza e formazione, a ognuna delle quali è stato chiesto un contributo differentemente collegato con il lavoro in mostra”.
Emanuela De Cecco in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Eva Marisaldi
“Eva Marisaldi introdusse alcuni elementi che segneranno la scena artistica italiana degli anni ‘90. Se del termine relazione si è abusato, non si può non registrare che dalla prima metà del decennio si affacciò anche sulla scena del nostro paese una processualità artistica che fece del dialogo il proprio paradigma. Dialogo e collaborazione che di per sé non sono altro che mezzi e che potrebbero anche non avere particolare rilevanza se non presupponessero un’idea di autore e di opera tornata a creare dimensioni per- corribili da soggettività differenti, permeate da modalità narrative e tonalità affettive. Opera esemplare considerata retrospettivamente e tra le prime dell’artista, Scatola di montaggio indica il dono di sé come inclinazione emotivamente tesa a dare vita a un luogo d’incontro tra soggettività variabili e mutevole, a seconda delle esperienze che in esso s’intrecciano. Non irrigidendo i ruoli la voce dell’artista diviene nell’opera una tra le tante, accompagnando il pubblico a colmare il luogo che lei accenna ma non occupa”.
Alessandra Pioselli in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story" (2010)
Roberto Cuoghi
"A dirla tutta, quando ho iniziato a sapere dell’esistenza strana di Cuoghi, avevo qualche dubbio su quei primi lavori, troppo debitori di una gloriosa storia dell’arte per sembrarmi del tutto originali, anche se era chiaro che le sue azioni non avevano il tono eroico e politico di quelle dei suoi predecessori e trovavano forme diverse, appunto, di racconto. A distanza di più di dieci anni credo ancora nella mia opinione. Ma ora è chiaro che, già in quei primi lavori, c’era molto di ciò che avrebbe mosso le sue visioni successive: l’ossessione per il corpo, suo e di altri, l’attenzione per le possibilità della metamorfosi e della trasformazione in un mondo d’identità, forme e informazioni sempre più malleabili e fluide, il suo interesse per le forme pop e popolari del racconto, della fiaba, della leggenda. In questi anni, attraverso un lavoro di scavo e di sintesi allo stesso tempo, Cuoghi sembra aver trovato la formula magica per combinare memorie di eroiche avanguardie artistiche con il tipico disincanto postmoderno, la cultura popolare italiana con le esigenze e i nodi, anche drammatici, di un’attualità pressante. È diventato attuale e antico al tempo stesso, più profondamente vecchiogiovane.
Se Roberto è, probabilmente, l’artista italiano più importante della sua generazione, è bello sapere che tutto (o quasi) è nato da dieci unghie decisamente troppo lunghe".
Luca Cerizza in "Souvenir d'Italie. A nonprofit art story" (2010)
Francesco Vezzoli
“La malinconia però è un modo di essere nel mondo, talmente diffuso da costituire una parte rilevante anche nello spettacolo, che Vezzoli intendeva, dall’inizio, indagare. Il divismo generato dal cinema, con tutte la dinamiche di identificazione che scatena, è in fondo il contraltare nobile, la controparte esaltante, e creativa per quanto tende alla emulazione, del demi-monde di cui sopra.
Insomma, poco dopo è arrivata Silvana Mangano: è sua l’effige che l’artista ricama in uno dei tre video dei suoi esordi, perché sembra che l’attrice sia stata a detta di tutti una donna malinconica, poco attratta dal glamour che avrebbe dovuto sostanziare la sua esistenza... E una grande ricamatrice”.
Giorgio Verzotti in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Alessandra Spranzi
“Il mondo non è tutto finanza e informazione globalizzate. Tutto intorno a noi è pieno di giornalini, dépliant, siti web in cui milioni di persone mettono in vendita oggetti, case, animali di cui, diciamo così, non si possono più occupare. Quello a cui solitamente non facciamo caso è che per farlo li fotografano e il modo in cui lo fanno. Tutto sembra normale e pura registrazione, ma è tutto un mondo fotografico – e un’estetica – a essere in atto. Ci voleva lo sguardo surreale di Alessandra Spranzi per farcelo notare.
Come fotografare un oggetto, una casa, un animale, per mostrarlo a qualcuno, mostrarne le caratteristiche, dare un’idea a un possibile acquirente? Come metterlo e dove? La prassi è minimale, utilitaristica, grado zero, quando non sotto zero, se si pensa alle inquadrature storte, ai flash, agli errori tecnici di ogni tipo; comunque nessuna preoccupazione estetica, nessun artificio tecnico, basta che la luce sia sufficiente e che l’oggetto si veda tutto, al centro dell’inquadratura. Eppure i risultati sono vari e sorprendenti. Guardati con altro occhio si caricano – o scaricano – di altri contenuti e forme, quelli che vi proiettiamo o estraiamo noi; ma non senza conservare qualcosa di irriducibile, di singolare, di proprio, che ha attinenza con quel fondo inestetico da cui originano”.
Elio Grazioli in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Cesare Pietroiusti
Da tempo Cesare Pietroiusti ha intrapreso una riflessione sul tema del valore: valore economico, valore artistico, valore funzionale dei pensieri, degli atti e degli oggetti. All’interno di questa sua riflessione rientra una serie di indagini critiche e di esperimenti riguardanti in modo specifico il denaro e il valore dell’arte.
«Mi interessa il tentativo di creare situazioni nelle quali un qualche tipo di paradosso o di inversione di termini costringa il visitatore-partecipante, di una mostra o di una performance, a vedere in modo diverso qualcosa, il denaro, che è considerato ordinario o scontato. Le leggi economiche, in questo senso, offrono un potenziale campo di ricerca molto interessante. La feticizzazione del denaro, l’esistenza di tabù riferiti a esso, la compresenza in questa entità di caratteri divini uniti a una sua estrema, triviale, ordinarietà, apre un campo di sperimentazione e di indagine critica ampio e... ricco».
Gabi Scardi in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010).
Stefano Arienti
“Vi è un’ampia società fatta di persone che a loro modo praticano un culto delle immagini, di un insieme di informazioni visive che stanno solitamente in una forma quadrangolare, su supporti bidimensionali che si è portati a fissare su pareti e che diventano oggetto di contemplazione. È una predisposizione forse innata, che si rintraccia in tante culture e in vari periodi, che naturalmente nella diffusione massiccia della stampa ha trovato un grande sviluppo.
Mi ha sempre colpito questo approccio popolare, non colto, all’amore per l’immagine, la diffusa propensione a fissare in una parete qualcosa su cui tornare con l’attenzione, con cui convivere, si tratti di un manifesto, di una locandina o di un’immagine ritagliata. Questo accade in casa, nell’ufficio, in aule, in spazi dove si vive. Penso ad ambienti vari, visivamente articolati, elaborati, che vanno dalla stanza del teenager al gabbiotto di una portineria, dalla sede di un club alla cabina di un camionista. Casi del genere denotano l’esigenza di costruire uno spazio d’appartenenza con proprie peculiari forme, in modo che possa risultare funzionale, appagante, rassicurante. Naturalmente, se andiamo ad approfondire, ci si rende conto che non sempre, ma spesso, gli elementi che compongono questi spazi offrono un senso di appartenenza più presunto che reale, offrono soluzioni limitate e temporanee a una omogeneizzazione cui si reagisce adottando ancora una vol ta forme preconfezionate, finendo con l’aderire a ulteriori stereotipi. Ma, senza andare troppo lontano con questo tipo di considerazioni, ciò che mi interessa sottolineare è che Stefano Arienti, quando interviene su poster, agisce in quella costante antropologica che conduce a mettere in verticale un’immagine che piace”.
Giulio Ciavoliello in “Souvenir d’Italie. A non profit art story" (2010)
Massimo Bartolini
“È in questa linea del disegno inteso come esercizio di concentrazione, come metodo di sintesi e di visione, le perle distillano la pianta dello spazio, che lavora Bartolini. Il disegno è la struttura attraverso cui l’artista osserva il mondo. Per Bartolini frammenti di paesaggi reali e tridimensionali diventano disegni, come quando per un’opera pubblica a Firenze, Panchina del 2003, scontorna un pezzo di terreno per farne un oggetto funzionale. Mentre, con un processo simile ma che procede inversamente, attribuisce tridimensionalità e concretezza ai disegni bidimensionali, come quando realizza disegni di giardini su fogli di carta accartocciata che poi stende di nuovo in modo da utilizzare l’avvallamento delle piegature come fossero zolle di terra”.
Cloe Piccoli in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Maurizio Cattelan
“Una polaroid, la definiva Maurizio Cattelan all’epoca. Certo, come spesso nelle opere di Cattelan c’era la sparizione, c’era la scomparsa, ma c’era anche la morte, e questa volta era drammaticamente vera. E c’è L’uomo della panchina, così come lo chiamava Francesco Bonami nel crudo testo pubblicato in L’hiver de l’amour bis, il catalogo-supplemento della mostra, dove, nel bel mezzo delle scintille cross-disciplinari e degli umori non ancora disincantati dei primi anni ’90, trovava spazio il canto funebre per Moussafir Driss, malcapitato dormitore notturno disgraziatamente assopitosi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ninna Nanna non segnava davvero lo spazio - come tradizionalmente fa la scultura – ma lo incideva e dinamitava psicologicamente. Segnava più che altro l’atmosfera e, al tempo stesso, segnava senz’altro un momento. Quel momento era l’inizio di qualcosa e quei sacchi pieni di macerie potevano certamente rappresentarlo. Ben più che per l’arte ovviamente. Ma non è stato così. Le cose hanno finto di andare avanti ma sono state ricostruite identiche a se stesse, come lo è stato il PAC dopo l’esplosione. Per rimozione forse, ma anche per comodità e tranquillità sociale, in splendente e paradossale assonanza con un’identità politica atrofizzata.
Ninna nanna, nel suo peso simbolico e nella sua epica tragicità quotidiana, chiude davvero il secolo italiano degli stati d’animo e della loro incommensurabile tristezza”.
Andrea Lissoni in “Souvenir d’Italie. A nonprofit art story” (2010)
Immagini Proeiettate, 1991
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un progetto MAXXI BASE a cura di Giulia Ferracci e Carolina Italiano
4 dicembre 2010 - 13 febbraio 2011
Francesco Vezzoli
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